110 ANNI DI SAVOIA. La storia raccontata da Andrea Vecchione Una vita insieme ai bianchi, tanti gli aneddoti e le vittorie in questo lungo cammino raccontati dallo storico massaggiatore dei bianchi. Un amore viscerale verso questa maglia, una fonte di ricordi tramandati con passione

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vecchioneA dispetto del fisico minuto, Andrea Vecchione (nella foto) è un vero e proprio monumento nella storia del Savoia. Da quasi sessant’anni è seduto su quella ideale panchina dove si sono avvicendati decine e decine di allenatori, centinaia di calciatori. E lui lì, sempre pronto a scattare in campo al minimo accenno di malessere di quella maglia bianca, prima di un massaggio miracoloso, il suo, che la riportasse su, all’impiedi con l’atleta di turno. Ne avrebbe di cose da raccontare, il buon Andrea, ma per una naturale riservatezza quasi ce le nasconde dietro i “non ricordo”, prima di sciogliersi davanti all’importanza di un avvenimento che ha pochi eguali nella storia del calcio italiano: il Savoia, il suo Savoia, compie centodieci anni.

L’APPRODO AL SAVOIA – Andrea, come sei arrivato in questo glorioso club?

Una domenica pomeriggio del 1957, andai a vedere i bianchi che giocavano a Torre del Greco perché a Torre non esisteva un campo sportivo; l’allora Formisano, di proprietà privata, era stato venduto all’Istituto Case Popolari e la squadra alternava le gare casalinghe tra Pompei ed appunto la città corallina. Nel corso della gara, uno dei nostri si fece male e mi resi conto che, a prestargli soccorso era il solo, compianto dr Ciniglio (alla cui memoria è intitolata la sala medica del Giraud ndr). Dopo la partita, pensai bene di recarmi negli spogliatoi offrendo il mio aiuto al medico che mi accolse con grande entusiasmo. Io all’epoca lavoravo come infermiere in un ospedale di Napoli ma non avevo alcuna conoscenza della terapia dei massaggi, così chiesi all’allora massaggiatore del Napoli, Michelangelo Beato, se potesse insegnarmi le diverse tecniche di trattamento legate all’infortunio sportivo e almeno i rudimenti della medicina sportiva. Fu così che appresi le prime nozioni. In seguito, la Federazione dei medici sportivi organizzò dei corsi specifici anche di massofisioterapia ai quali presi parte e che mi consentirono di affiliarmi alla Federazione Gioco Calcio. Siamo nel 1960/61”.

LA PRIMA ‘PANCHINA’ – Parlaci del tuo esordio in panchina.

Stagione 1958/59, al Bellucci di Pompei. La partita, però, francamente non me la ricordo. Affiancavo il dr Ciniglio, persona di grande umanità e anch’egli molto legato al club, “malattia” che poi ha trasmesso al figlio Fofò, con il quale ho pure lavorato in tandem”.

I PRESIDENTISSIMI – Nella tua lunga storia, hai conosciuto una miriade di presidenti, quale può entrare nella ristretta cerchia dei cosiddetti “presidentissimi”?

“Più che uno, direi che sono stato impressionato dalle due famiglie torresi degli Immobile e dei Farinelli che hanno dato senz’altro un qualcosa in più rispetto agli altri. Sarà perché del passato ci si ricorda sempre il meglio, ma direi che il clima instaurato nel corso di quelle stagioni era davvero diverso per quel che questi signori sapevano infondere in termini di passione ed attaccamento ai colori. Non ricordo episodi particolari perché tutti i giorni erano permeati dalla sana voglia di fare il meglio possibile per portare avanti il Savoia e con esso la città di cui loro erano figli. Oggi, invece, e parlo in generale, mi pare che la passione nasca più dall’interesse che non da quella sana voglia di competizione. Assistiamo ad un alternarsi di “numeri uno” che mette i brividi; gente che oggi parla di attaccamento alla maglia, di essere tifosi e domani abbandona magari per accasarsi altrove dicendo le stesse cose. Non ci siamo proprio. Le differenze sono abissali e nel nostro caso, soprattutto perché a mio modo di vedere, manca l’elemento essenziale: la torresità”.

LA VITTORIA DEL CUORE – La vittoria che porti nel cuore.

“Certamente quella di Avellino, quando, battendo la Juve Stabia, siamo approdati in serie B facendo un bel salto di qualità.

Mi sorprendi, non facevi parte di quella società.

“E’ vero, ma dimentichi che sono prima un tifoso del Savoia e chiunque abbia a cuori le sorti dei bianchi non può non ricordare con enorme soddisfazione quel trionfo. Nello specifico, ci sono stati alcuni periodi come quello, in cui mi sono allontanato dal club, diciamo per incompatibilità di carattere con la dirigenza”.

I GIOCATORI – Il giocatore più esigente dal punto di vista fisico?

“Molti tra i professionisti, ma in particolare Pedro Mariani ed Eupremio Carruezzo. Ma ricordo anche tra i portieri, Carlo De Amicis, tutta gente che teneva particolarmente alla propria forma, accettava consigli ed in generale seguiva precise regole senza mai trasgredire”.

L’atleta che ti ha maggiormente impressionato?

Roberto Padovani senza ombra di dubbio. Longilineo, fisico asciutto ma dotato di grande forza e potenza, un attaccante veramente prestante sotto tutti i punti di vista.”

GLI ANEDDOTI – E’ il momento degli aneddoti. A te la parola.

“Posso cominciare dal primo, che è di carattere extrasportivo ma che con il Savoia c’entra eccome. Quando ho conosciuto mia moglie, già frequentavo l’ambiente e le dovetti confessare che per ragioni professionali la nostre domeniche erano… i lunedì! Insomma, fu una vera e propria condizione che le posi. Per fortuna accettò ed oggi siamo ancora qui, insieme, io, lei, i miei figli… e il Savoia! Per anni, ad esempio, ho predisposto le loro vacanze, le mie invece, erano in ritiro con la squadra di turno”.  

Della serie “…se non vedo non credo”.

Gennaio 1991, Castel di Sangro. In una giornata con temperatura sotto zero, il Savoia a pochissimi minuti dalla fine era sotto di due reti e buona parte dei nostri tifosi aveva già abbandonato gli spalti, quando, in cinque minuti in piena zona Cesarini, Marasco, Comiato e Bertuccelli ribaltano il risultato. Arriviamo a Torre e troviamo nugoli di tifosi tutti presi in una disputa tra chi, andato via prima, sosteneva che chi era rimasto mentiva spudoratamente per il solo gusto di prendere in giro e questi ultimi che spergiuravano che il Savoia aveva vinto 3-2; insomma fu solo grazie a noi che le accese discussioni ebbero fine tra l’ilarità generale e la contentezza anche da parte dei molti che si erano persi una entusiasmante vittoria pur dopo essersi accollati centinaia di chilometri: in fondo, il Savoia aveva vinto. E questo contava”.

Glielo dico o non glielo dico?

Stagione 1990/91. Alloggiavamo in un albergo di Roma, non ricordo se per la partita con l’Ostia Mare o con la Lodigiani, quando intorno all’una sento un trambusto provenire dai corridoi, mi alzo, esco dalla camera e incrocio gente che corre, chiedo cosa fosse successo e mi rispondono: “c’è un incendio!”; sveglio Giovanni il magazziniere e lo esorto a vestirsi. Intanto, tra me e me ero combattuto tra l’allertare tutti o accertarmi prima dell’entità del problema: l’indomani c’era la partita e disturbare il sonno dei giocatori ci avrebbe sicuramente danneggiati. Restiamo in attesa, ma il fumo si vedeva nitidamente ai piani alti dell’hotel, distanti si da noi ma non troppo. Chiedo lumi al direttore dell’albergo, decidiamo di attendere i vigili del fuoco che fortunatamente ci tranquillizzano. Intanto, però, avevamo trascorso praticamente l’intera nottata insieme ai pompieri. L’indomani, raccontai tutto all’allora tecnico Schettino, un friulano focoso, che per tutta risposta parte con una serie di imprecazioni sostenendo che si era corso il rischio di morire tutti. Attesi che finisse l’incazzatura, lo guardai e gli dissi: “Mister, ma ti pare che io, tifoso doc, avrei lasciato il mio Savoia ad arrostire!”. Capì, e tutto si chiuse con una sonora risata.”

La tragicommedia: tutti a piedi!

Stagione 1971/72. Non era un periodo buono per il club, eravamo in serie ristrettezze economiche e c’era una trasferta a Chieti. La società di noleggio del pullman, però, non aveva intenzione di trasportarci se non prima di aver saldato il pattuito. Fortunatamente, all’epoca, le squadre ospiti ricevevano un fisso pari a 350 mila lire e grazie a questa promessa di pagamento, partimmo per l’Abruzzo. Prima della gara uno dei dirigenti al seguito, fattosi dare l’importo dal cassiere, si dileguò. A fine partita, l’autista, scoperto il fatto, se ne andò lasciandoci a piedi! Per giunta, il custode dello stadio ad un certo punto chiuse la struttura e rimanemmo tutti al freddo polare, addirittura fioccava, senza saper cosa fare e dove andare e nemmeno una lira per rifocillarci. La faccenda stava assumendo toni drammatici quando scorgemmo il nostro bus: era l’autista che, preso evidentemente dal rimorso, arrivato dalle parti di Sulmona tornò indietro per riprenderci. E ci pagò pure da mangiare!”.

Anche questo è stato il Savoia. 110 anni di storia rivissuti con la memoria di un vero torrese. Grazie Andrea!         

(Matteo Potenzieri)





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