Il dopoguerra e gli anni ’50

us-torreseParlare del Savoia di questi anni è allo stesso tempo imbarazzante e nostalgico. Innanzitutto, agli inizi non era Savoia ma U.S.Torrese. Alla ripresa dopo il conflitto, infatti, nel 1946, la denominazione della squadra di Torre Annunziata assunse un nome più vicino a quello della città. Profonde erano state le ferite inflitte dalla guerra e troppo recente il ricordo delle complicità della casa reale perché un popolo fondamentalmente di democrazia proletaria quale quello torrese potesse accettare ancora quel nome.
In quegli anni di grandi conflitti ideologici prevalse la sponda popolana, quella che si rifaceva alla Pro Italia, per intenderci, rispetto a quella della borghesia imprenditoriale che era legata al nome Savoia. Il primo lustro è costellato di malinconie. La società, sempre afflitta da carenze di tipo economico, arriva tanto in basso da retrocedere nel campionato di Promozione, da dove riesce a risalire riapprodando alla quarta serie, grazie ad un manipolo di giocatori che facevano della foga l’arma migliore. Da segnalare Manco, Giglio, Lo Monaco, Diogene e Gilbo. Ma l’animosità non bastava, occorrevano anche gli sghei, e così si ripiombò in Promozione, dove, scomparso anche il campo Formisano, la squadra cittadina rischiò di scomparire anch’essa. Macchè, nel 1957, senza campo, sempre senza sghei, ma con la forza dell’incoscienza e la fede derivante dalla tradizione, un gruppo di appassionati, con a capo Alfonso “Fummetiello” Genovese e Michele Caso, rifondano il Savoia e partecipano al campionato di II Categoria al posto del rinunciatario Cicciano. Il campo di gioco sarà, sino al 1960, il “Bellucci” di Pompei ed alla guida della società si segnala il Capitano Arcangelo Arpaia con Antonio Ciniglio, Lucio Lucibelli, Livio Di Nola, Matteo Matuozzo, Crescenzo Pignataro e Salvatore Caiazzo, detto “il Napoletano”. Il pubblico non è che si accorga granchè della squadra, che vivacchia grazie all’aiuto delle autorità militari che consentono il prestito di calciatori appartenenti alla Compagnia Atleti, quali Cusina, Grappillo e Biemmi e si mantiene a stento a galla. Per risollevarla ci vorrebbe un campo di gioco. Ed infatti, come si decide di mettere a disposizione del Savoia un rettangolo di gioco, nel 1960, rinasce l’entusiasmo. Il Savoia passa nelle mani di Lello Pagano, ed è subito un’altra musica.
Nell’immediato dopoguerra si ritrova una squadra campana, la Salernitana, in grande spolvero, guidata da uno dei mostri sacri del calcio italiano di tutti i tempi, quel Gipo Viani che trovò un nerbo di giocatori che riuscì a sublimare il “metodo” sino a renderlo uno spettacolo di eleganza, di grazia, di vigore contenuto e smussato da una tecnica sopraffina, irresistibile nelle conclusioni, scontate e puntuali. Le fonti del gioco erano Valese e Jacovazzi, Volpe e Voccia, la punta di diamante era Margiotta, cui si affiancava, nella prosecuzione logica delle premesse gettate dal quartetto, l’allora imberte Onorato, mentre Saracino era additato dalle platee calcistiche mastino ringhioso e irriducibile delle retrovie.
Quell’anno la Salernitana guadagnò l’ingresso nella massima serie. E chi le contrastò il passo, fino a che un arbitro romano, Fois, non le spianò la strada con una svista storica, fu la Torrese, un Savoia che aveva cambiato pelo ma non vizio, cioè carattere: tenace, inarrendibile, battagliero. Troppo lungo sarebbe rifare la storia del calcio torrese nell’immediato dopoguerra, sarebbe la storia del calcio campano, con uno Stabia, una Salernitana, un Napoli, un Internaples, una Nocerina, una Frattese ecc. che diedero vita a campionati, coppe, a tornei, stretti, concisi e accesi. Basti dire che lo Stabia di Meo Menti, Dolfi, Salvioli, Rossetti tenne cattedra per tutto un non breve periodo. Menti non aveva fatto in tempo a rivarcare la linea gotica e, attestatosi a Castellammare, con le sue bordate imprendibili, suscitava addirittura deliri. Tornò alla Fiorentina, al Torino, alla Nazionale per scomparire immaturamente nel rogo di Superga con gli indimenticati ed indimenticabili fuori classe granata. Procedettero appaiati Torrese e Salernitana per un buon cammino e sul percorso si innestarono anche episodi di mafia paesana, di interventi eterodossi che ora fanno sorridere al cospetto delle violenze spesso gratuite che si perpetrano ad ogni occasione. In porta al Savoia giocava Morini, la plasticità in persona. L’apollineo Ancillotti e il baffuto D’Errico erano i terzini d’ala. I tre della mediana: Negri, Compiani, Busiello. Compiani francobollava il centro attacco.
torrese-con-rossi-castaldoIl quintetto d’attacco: Calleri, Rossi, Castaldo, Barbaro, Ghezzi. Mezza Alessandria in squadra, rinnovando un travaso dal Piemonte che già altre volte aveva dato risultati più che soddisfacenti, specie con i vercellesi. Calano, dunque, dalla città della paglia il classico Ghezzi, con sul groppone parecchi campionati di serie A, un “sinistro” teso e calibrato; il peperino Barbano, gambette storte e tanto fosforo nel cocuzzolo; Calleri, dal gioco essenziale, certe sciabolate, dei fendenti che lasciavano impietriti i “pipelet”. Scese sornione Secondo Rossi, dall’aria così quiete, con il sussurro di un ginocchio in disordine. Si temeva che giocasse alla bella statuina. Timori, ovviamente, infondati. Bastavano i primi minuti, in campo. Nemmeno una partitella, i tiri in porta di assaggio demolirono il muro che stava alle spalle della porta, al Formisano. Poi il gioco: stringato, definitivo. E il primo, il secondo, o gol a grappoli. Tutti con il marchio “Rossi”. Cannonate. Autentiche, di fronte alle quali i portieri si chinavano e si scostavano per scansarle. Da fermo, al volo, di mezzo volo, di contrabalzo, di collo spesso e talvolta di mezzo esterno, la botta preceduta da un ingobbirsi che innescava nei tifosi che sapevano una carica di suspence che sfociava poi in un urlo di entusiasmo. Rossi divenne proverbiale, temibile e temuto in tutta la serie B meridionale, un raggruppamento di cadetti tra i più prestigiosi, un Palermo in cui militava Vicpaleck, tanto per citare un nome, tra le venti partecipanti. A proposito dei rosanero, i siciliani furono fregati a Torre su rigore, inutile dire, trasformato da Rossi. Vittoria su rigore? si arriccerà il naso. Piano. Il penalty fu concesso, una rarità, niente di meno che da Generosi Dattilo, l’anti-Gonella per eccellenza. Sempre sulla eco di Palermo, storica la “mazziata” che si buscò un fischiettatore, Leone.
Facciamo punto, e ci sarebbe tanto da ricordare ancora …





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